(consegna 16 maggio 2016)
La questione non è nuova. Nasce il giorno dopo l’affermazione del judicial review of legislation: il primo a denunciare il rischio del «dispotismo di un’oligarchia» fu Thomas Jefferson, criticando proprio Marbury v. Madison. Da allora non si è smesso di parlarne e preoccuparsene: si pensi a vicende costituzionali di grande impatto come il conflitto fra il presidente Franklin D. Roosevelt e la Corte suprema ai tempi del New Deal (dopo il 1929). Un giurista francese, Edouard Lambert, già prima, a proposito della legislazione sociale negli Stati Uniti aveva pubblicato Le Gouvernement des juges et la lutte contre la législation sociale aux États-Unis. L’expérience américaine du contrôle judiciaire de la constitutionnalité des lois (Paris, 1921). Dopo la II guerra mondiale, mentre si andava affermando lo “stato costituzionale”, si cominciò a parlare di judicial activism, di judicialisation of politics e, in ultimo, di juristocracy. In reazione non sono mancate critiche profonde alla stessa accettabilità della prevalenza delle Corti supreme sulla legislazione e le proposte di ripristinare la centralità del circuito politico-rappresentativo e del legislatore come interprete della dimensione costituzionale dei conflitti sociali.
Probabilmente lo Stato costituzionale poggia giusto sul delicato equilibrio fra stato di diritto (garantito dalle corti) e sovranità popolare (interpretata dalle istituzioni politiche rappresentative).
Se ciò vale in tutti gli ordinamenti, quale più quale meno, per cause interne in Italia la tendenza alla costituzionalizzazione e alla giuridificazione, si è accompagnata a un’espansione della giurisdizionalizzazione di qualsiasi conflitto financo in ordine alla selezione fra valori e interessi e alla scelta dei mezzi per perseguirli: a tutti i livelli, in tutti gli ambiti. Al di là di vere o presunte invasioni di campo del giudice costituzionale, certo favorite dalla scarsa efficienza del circuito rappresentativo, non solo nulla sembra sfuggire al giudice (contabile, amministrativo, ordinario), il che in uno stato costituzionale non deve sorprendere, ma tutto e sempre sembra dover necessariamente e comunque passare per una sorta di improprio controllo giurisdizionale di fatto, divenuto obbligatorio e vincolante. In un contesto sociale già caratterizzato da forme di individualismo patologiche e da insufficiente propensione alla cooperazione che vada al di la della cerchia ristretta della famiglia o delle personali conoscenze, posizioni soggettive di singoli e gruppi finiscono col trovare sistematica garanzia del proprio interesse individuale nel processo a scapito dell’interesse generale, il cui formalistico ed astratto perseguimento è diventato lo strumento cui far ricorso per affermare con successo interessi settoriali, corporativi, individuali. Si ha così l’impressione di uno squilibrio fra l’attenzione (e le tutele) assicurate alle situazioni soggettive, magari elevate al rango di veri e propri diritti (anche costituzionalmente riconosciuti) e la scarsa attenzione alla funzionalità delle istituzioni che di norma dovrebbero provvedere alle prestazioni volte ad assicurare il soddisfacimento di quelle stesse aspettative. La questione non è se fissare priorità ma chi è opportuno che le fissi, come dire il ruolo del giudice e i suoi limiti: una problematica di natura strettamente e immediatamente costituzionale.
Nel rispondere al Bando i giovani studiosi cui è rivolto formulino la propria analisi documentata e le proprie considerazioni in relazione ai fenomeni segnalati (magari per metterne in discussione la stessa esistenza o rilevanza); ove li ritengano necessari o anche solo utili, suggeriscano i rimedi suscettibili di assicurare nell’ordinamento costituzionale italiano un equilibrio più funzionale al buon governo della collettività fra istanze politiche e istanze giurisdizionali, sì da tutelare i diritti, senza comprimere oltre misura la decisione politico-rappresentativa e quella amministrativa.
Il saggio, che deve essere scritto in conformità alle regole generali della Rivista indicate nelle Informazioni per i collaboratori, non deve superare le 80.000 battute, spazi e note incluse; deve essere consegnato alla Redazione della Rivista entro il 16 maggio 2016, mandando il file via mail a Diletta Tega (diletta.tega@mulino.it).
La valutazione degli elaborati inviati sarà svolta, in forma anonima, da parte di una Commissione giudicatrice, alla quale partecipano solo alcuni dei componenti della Direzione della Rivista, che non conoscono, né hanno rapporti con i proponenti. Al vincitore del concorso, oltre alla pubblicazione del saggio nella Rivista, sarà consegnato un premio consistente nell’attivazione dell’abbonamento gratuito alla Rivista per una anno e un premio in volumi editi da “il Mulino” pari al valore di 500 euro. Oltre al vincitore, potranno essere pubblicati anche altri saggi ritenuti meritevoli dalla Commissione giudicatrice.